Sono le 6, di una domenica mattina.
Mi ritrovo in treno, seduto in un regionale che mi porterà a Milano, nel giro di due ore.
Ancora in dormiveglia, provo a riposarmi, chiudendo gli occhi, ma le prime luci dell’alba penetrano dal finestrino, impedendomi di trovare il cercato riposo.
Spingo la schiena contro il sedile, la nuca, contro il poggiatesta e lo sguardo è volto verso il panorama in movimento.
In un totale stato di contemplazione, per quanto la mia presenza fisica sia impiantata nella carrozza di quel treno, la mia presenza mentale è da tutt’altra parte.
Per tutte le volte in cui ho provato a formulare un ricordo e a trattenere quelle sensazioni vive nella mia testa, raramente ho avuto successo nell’intento di riprodurle, ogni volta, con la stessa intensità emotiva… e questa volta è davvero forte. Man mano che il tempo passa affiorano pensieri concatenati tra di loro e il quadretto finale prende sempre più colore e spessore, proprio davanti a me, in un’onirica visione di un periodo ormai passato, ma comunque vivo, mescolato ad un presente, che non sarebbe mai esistito senza il primo, come precursore.
Siamo solo io e i miei pensieri, io i miei “viaggi, durante il viaggio” e, in un tripudio di immagini, suoni e sensazioni, rivivo un film, ancora da finire.
Penso a qualche ora fa, la nottata trascorsa per le vie di una città affollata, condivisa con un grande compagno di serate.
Camminiamo da cinque minuti e una ragazza, in mezzo alla strada, ci ferma tentando di appiopparci il volantino di un locale, rinomato nella zona.
Una dinamica che conosciamo quasi a memoria.
E per una qualunque cosa già vissuta, funzionale, non possiamo che agire da manuale.
Ricordo questa ragazza in mezzo alla strada che, dopo uno scambio di battute superficiali e di sguardi comunicativi, invece di lasciarti il volantino che tanto sponsorizzava, caro compagno di serate, decide di optare per il suo numero.
D’altronde, siamo in un Paese libero.
La lasciamo, proseguendo per la nostra strada e noto che la tua espressione inizia ad assumere sfumature differenti, rispetto ai 20 minuti precedenti: hai un’altra luce negli occhi, sprigioni un’energia palpabile ad un metro di distanza. Stai entrando nella giusta impostazione mentale per la serata.
Ci stiamo entrando insieme.
Se ripenso a diversi anni prima in cui, per una situazione del genere, avrei passato l’intera serata a guardare con occhi d’invidia, la persona al mio fianco, facendo buon viso a cattivo gioco e crogiolando nel mio ego ferito, avverto una sensazione di malessere e infantilità che, ormai, non riesco più a concepire.
Per fortuna, non ci riesco più.
Passano 10 minuti.
“Oh… quelle due che vengono nella nostra direzione?”
“Mi sembra di si… ma non hai le lenti?”
“No: ho finito quelle per l’occhio destro…”
Siamo alle solite.
Vado io.
“Ragazze, cosa si combina di bello, la sera, da queste parti?” – si, siamo davvero alle solite.
Ricordo perfettamente quei due tipini: la più esuberante, alta, bionda e bevuta… la più scrutatrice: bassa, morettina, sulle sue: reggeva ancora la bottiglia di vodka alla pesca, dell’amica… per l’amica.
Questa volta avremmo dovuto agire per gradi: di certo quella “stangona” di un metro e ottanta era una bella gatta da pelare e se avessimo voluto essere tecnici nella procedura, sarebbe stato il nostro primo obbiettivo: la prima vera sfida della serata, per arrivare ad un risultato comune.
Una vicenda molto divertente, sicuramente nessuna delle due si sarebbe immaginata che l’apice del divertimento di ieri sera sarebbe stato con quei “due sconosciuti incontrati per strada”; non di certo la morettina, che me lo ha scritto per esteso, un quarto d’ora fa, su Whatsapp.
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Si chiama Lucia e, da quando ha iniziato a farmi partecipe della sua vita, delle sue insicurezze e bisogno di punti fissi, in quella mezz’ora in cui, le nostre menti erano all’apice dell’intreccio, non ha potuto fare a meno di fissarmi le labbra per ogni parola uscita dalla mia bocca… non ha potuto fare a meno di avvicinarsi con il suo corpo, al mio, cercando quell’ala di protezione che, per tutta la sera, era stata rappresentata dalla sua compagna ubriaca… non ha potuto fare a meno di godersi quel magnetismo costruito intorno a noi, a cinque centimetri di distanza, mentre il resto dell’universo scorreva alle nostre spalle… il minimo che poteva fare fare era proporre di vederci in un’altra occasione, senza l’amica esuberante in circolazione… e così ha fatto.
Nella sua prevedibilità è stata dolcissima… nella mia imprevedibilità sono stato tempestivo.
Le lasciamo, con una scia di sguardi che ci osservano mentre ci allontaniamo.
Quello sguardo che Lucia ha mantenuto per tutto il tempo in cui abbiamo parlato, lo stesso sguardo che, tempo fa, non sarei riuscito a ricambiare in presenza di una donna, con così tanta connessione. Lo stesso sguardo che troppe volte mi ha messo in soggezione negli anni passati, mandandomi in tilt il cervello e in pappa, le parole. Quanto odiavo quello sguardo: metteva in evidenza ogni mia singola insicurezza, la concezione di me, solida quanto un castello di carte…
Le emozioni represse, per paura dell’inadeguatezza.
E pensare che, ormai, non riesco più a fare a meno di quello sguardo. Lo ricerco. Lo sento. Lo vivo. Lo viviamo in due. Fino in fondo.
E’ stato divertente: ma ieri sera puntavamo a qualcosa di diverso.
La serata era ancora giovane e noi, tutt’altro che morti.
Luci, locali, tavolini, folla in festa… in un tran tran serale tipico del sabato di una grande città, scorgiamo in lontananza due anime annoiate, sedute ad un tavolo, tirate per l’occasione.
Ci basta un’occhiata.
Vado di nuovo io: sarebbe stato un peccato rovinare l’immagine del locale lasciando due sedie libere, a quel tavolo.
Cammino in direzione del divertimento, le persone mi costeggiano ai fianchi, man mano che mi muovo: non le avverto proprio. Nessuna ansia da prestazione pubblica, nessun pensiero negativo o sega mentale da circostanza. Siamo solo io e i metri che mi separano da un’interessante e intrigante serata e non vedo l’ora di poterla iniziare a dovere.
Ricordo ancora di una volta in cui, facendo una salita per arrivare a casa della mia ex, vidi un gruppo di ragazzi chiassosi scendere nella mia direzione, e pur di non incrociare il loro cammino e (tanto meno) il loro sguardo, allungai la strada di mezzo chilometro, passando dietro le palazzine limitrofe: quella sera avevamo in programma lo spettacolo natalizio della sorellina: visto da metà, in poi, per via del mio ritardo, che nemmeno seppi come giustificare.
Le due ragazze al tavolo:
‘Sera… ho visto questa sedia libera ed ho pensato che sarebbe stato un peccato lasciarla abbandonata a se stessa…”
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Le loro facce sbigottite. Adorabili.
Si unisce il mio compagno.
Le loro facce doppiamente sbigottite. Doppiamente adorabili.
La serata scorre in maniera deliziosa, le ragazze sono totalmente prese dalle figure di due individui così temerari, in mezzo ad un mondo di “falsi” e “timorosi”.
Non impieghiamo molto tempo ad entrare tutti in sintonia e la proposta di andare a ballare insieme, non tarda più di una mezz’ora.
Chiara, vestitino blu, tacco 12 e occhioni da cerbiatta è divertita e presa dal mio entusiasmo nel coinvolgere lei e l’amica, in pista da ballo.
Quando le ho detto che, a mio avviso, i suoi lunghi capelli neri sarebbero stati meglio ricci, non voleva crederci.
Quindi sono stato costretto a prenderla a braccetto e fare il giro di tutti i maschi della sala, per verificare la mia teoria.
I ragazzi si divertono e, con i più “coraggiosi”, divento complice e dirigo le danze verso il mio fine.
Ma non sono soddisfatto del risultato: da buon sostenitore del regolamento per l’accertamento di una tesi scientifica ho bisogno di più prove: a questo punto, è doveroso chiedere il parere della controparte femminile, in mezzo alla sala.
Alla fine di tutto l’esperimento, Chiara ha bisogno di una boccata d’aria e mi propone una sigaretta.
Non fumo, ma due chiacchiere le faccio senza problemi… anche se non è riccia.
Un dialogo, all’aperto, seduti su di un muretto, sul più e sul meno: non c’è bisogno di calarsi in chissà quali argomentazioni. Avevo il suo volto a due passi dal mio, una mano, sul suo fianco e quegli occhi… grandi… profondi… in cui era incredibilmente facile perdersi.
E, come se il destino avesse puntato lo sguardo su quel simpatico quadretto, dalla sala interna echeggia “Sugar”, di Robin Schulz.
Il passo successivo è incredibilmente automatico, ma armonioso, nella sua naturalezza.
Ore 23.30 di due anni prima: Marta, una ragazza per cui feci tantissimi chilometri di strada, per un primo appuntamento decisamente dimenticabile: tutta la sera parlai soltanto io, con il timore di cadere in imbarazzanti momenti di silenzio. Quando fu il momento di riaccompagnarla a casa tentai di salvarmi in “calcio d’angolo” selezionando, sull’Ipod collegato alla macchina, le canzoni che più le piacevano, appositamente scaricate per lei, con lo scopo di creare la giusta atmosfera.
Sull’entrata di casa sua, appena scese dalla macchina, ricordo ancora che esordì con un diretto “va bene, grazie per avermi accompagnata… ci si sente!”.
Ricordo anche il mio goffo tentativo di uscire dalla macchina, per fermarla, tirando fuori quel briciolo di palle che, per tutta la sera, erano rimaste nascoste.
Ancora ho impresse le mie parole: “Marta… vogliamo far finire tutto in questo modo?”.
Ancora ho impressa la sua risposta: “guarda… mi piace parlare con te… ma, per me, la cosa non puo’ andare oltre… non prenderla sul personale”
Dio solo sa quanto mi bloccò, questa affermazione, nei mesi successivi.
Quanto mi limitò nell’esprimere la mia persona e istinti, al momento giusto, in molte delle diverse occasioni che accaddero più tardi.
Una totale sconfitta personale, agli occhi di un confuso totale…
Quanto ci volle per ripristinare un’autostima sotterrata nel fango? Tantissimo.
Quante opportunità bruciai per assecondare i miei istinti, sottostando ai clichè sociali? Tantissime.
Quanti rimorsi ho, per gli attimi vissuti nel passato, in cui non fui all’altezza delle mie aspettative? Nemmeno uno.
“Se non avessimo vissuto il nostro passato, adesso non saremmo qui: possiamo solo esserne grati” mi disse, una volta, una persona a me molto cara.
Stanotte, la musica è partita da sola… l’atmosfera, l’abbiamo creata noi o, meglio, le nostre menti… il corpo ha fatto tutto il resto.
Nessuna complicazione, nessun sottorifugio, nessuna pressione: soltanto quello che entrambi veramente volevamo.
Labbra sottilissime, le sue… e calde.
Restiamo lì, a goderci l’attimo.
Rimarrei decisamente di più, ma devo prepararmi per un treno che partirà tra un paio d’ore.
Lei non vuole lasciarmi andare, e desidera di più.
Sa esattamente come provocare un uomo e non puo’ permettersi di farmi andare via. Ma io ho un appuntamento al quale non posso mancare: per noi due ci sarà tempo, più tardi.
Le prendo il contatto e recupero il mio compagno, che si sta decisamente divertendo con l’amica.
Chiara mi invia un messaggio un’ora dopo, ringraziandomi per la serata. Che buffa, la sorte, mi viene da pensare.
Se soltanto avessimo scelto un altro percorso, un altro locale, quella sera… il bello di questo mondo è che puo’ succedere di tutto, o nulla… e quando succede di tutto, pensi, rivivi.
Così come, inevitabilmente, rivivo mentalmente il momento in cui ho conosciuto la persona, per la quale mi sto spostando a Milano, in questa frizzante domenica di Febbraio.
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A volte lasciamo che gli eventi ci travolgano e, come salmoni, ci facciamo trasportare dalla corrente.
Quella mattina, di un mese fa, decisi di fare tappa in una grande città, nella mia zona.
Un programma improvvisato all’ultimo minuto, dovuto all’abbondanza di tempo libero, scaturito tra un impegno e l’altro.
Lasciandomi trasportare dalla folla di persone, vicino alla piazza principale, non riuscii a non vedere un tipino abbastanza curioso, camminare sotto i portici delle vie della città.
Ero dalla parte opposta e tra noi due passavano decine di individui, di corsa “La corrente mi ha portato qui, di fronte a questa occasione. Sarebbe da ingrati non approfittarne”. Nemmeno finii di pronunciare questo pensiero, nella mia testa, che mi ritrovai a due passi da una tipina, vestita da bambola, che con aria curiosa e sorpresa razionalizzava l’idea di un perfetto sconosciuto, che la fermava e si presentava in mezzo alla strada.
Non capita tutti i giorni.
E di certo, non era la mia prima volta.
Rammento benissimo la prima volta che feci qualcosa del genere: il cuore in gola. La mia voce tremava e il film mentale che mi ero fatto, 30 secondi prima, in cui la persona che avevo di fronte, sarebbe caduta ai miei piedi, non si realizzò.
Più o meno andò in questo modo: “C-C-Ciao… eheheh… ti volevo dire che sei d-d-davvero carina…ehehe… come ti chiami?”
Non una risposta vocale. Non un sorriso. Non un vago cenno di approvazione, da parte di lei.
Tirò il cagnolino che teneva al guinzaglio, quasi strozzandolo, e si allontanò a testa bassa e passo celere, in direzione opposta alla mia.
Me ne andai a testa bassa anche io. Con le palpitazioni a mille. E la faccia color pomodoro.
Per arrivare alla giornata del mese scorso, dobbiamo fare un salto dalla mia “prima volta” a notevoli dozzine di interazioni per strada, dopo.
Sara, così si chiama, è un tipino apparentemente sulle sue, ma molto profondo. Non facciamo difficoltà ad entrare subito in empatia e, un interessante approccio nato dal caso, in una giornata soleggiata si trasforma in mezz’ora di conversazione e appuntamento per la sera stessa.
Milanese D.O.C, avrebbe passato il week end a casa di amici, nella città in cui ci siamo incontrati.
Entrambi avevamo un pomeriggio impegnato, e nulla ci avrebbe disturbato la sera, dopo le dieci.
Ricordo il momento in cui arrivai in ritardo, a causa del traffico… e della sua frecciatina, appena raggiunto il luogo di incontro: “Fortuna che eri puntualissimo!”
Una cosa del genere, anni prima, mi avrebbe totalmente destabilizzato, mandando in confusione il mio cervello e, probabilmente, in malora i successivi 20 minuti, in cui avrei tentato di “recuperare”.
“Oh, povera piccola… mi hai atteso per tutto questo tempo?”
“Si!”
“Perfetto… la prossima volta dirò al traffico di farmi tardare altri cinque minuti: adoro essere atteso”/ (sipario sull’occhiolino).
Credo di averla rubata a qualche film famoso.
Si sviluppò una serata totalmente diversa da quelle comuni: gran parte della conoscenza l’avevamo fatta quel pomeriggio e sapeva benissimo con chi aveva a che fare.
Andammo in un bar ed ordinammo un paio di drink, ma a nessuno dei due importava di bere.
Aveva uno sguardo che comunicava più delle parole, un modo di muoversi che rifletteva una natura incontrollata e forzatamente repressa.
Non voleva essere lì, ferma, a parlare del più e del meno.
Non lo volevamo nessuno dei due.
Lo percepivo nell’aria: i suoi programmi non erano neanche lontanamente vicini a quello che stava succedendo, sotto gli occhi di tutti.
Tempo fa sarei stato talmente agitato e fissato sul fatto di fare bella impressione, mascherando la mia natura, ad un appuntamento, che non avrei mai potuto fare caso a quei segnali, tanto era il mio Focus su me stesso in relazione a chi avevo di fronte.
Ma, ormai, non succede più.
Per fortuna, non succede più.
Il controllo, la tranquillità e la mia vera natura fanno da sovrani in ciascuna di queste occasioni.
Solo così sono in grado di capire e captare cosa veramente, la persona che ho davanti, sta cercando di dirmi.
Quella sera, Sara, stava palesemente comunicando tra le righe.
I drink li finimmo in 20 minuti.
Svoltammo l’angolo e, nel giro di due metri, ci perdemmo l’uno nelle labbra dell’altra.
Dopo un’ora dall’incontro, eravamo avvinghiati nel suo letto, nella casa in cui risiedeva per il week end.
Ricordo il suo perizoma nero, con il pizzo.
I segnali erano stati interpretati correttamente.
Come salmoni, in balìa della corrente. Travolti e trasportati dagli eventi.
Se soltanto non fossi stato lì, quel giorno.
Se soltanto non l’avessi notata, tra la folla.
Se soltanto avessi deciso di aspettare “la prossima” (…) potrei porre condizioni all’infinito, e se c’è un detto che perfettamente rispecchia questo mondo, è proprio: “con i “SE” e con i “MA”, non si va da nessuna parte”.
A volte ci perdiamo in tanti discorsi e aforismi, che rischiamo di non renderci conto della vita che ci scorre davanti.
Della vita e delle sue occasioni.
Del modo in cui le cogliamo e di come le creiamo.
Siamo in continuo miglioramento e non possiamo agire sull’esperienza non vissuta. Ma possiamo vivere esperienze, viverle fino in fondo e lasciare che ci avvolgano e istruiscano con le loro emozioni.
Sono in treno, in dormiveglia la mia testa viaggia con flussi di considerazioni.
E penso che se oggi, in questa soleggiata giornata invernale, con i raggi che bussano sui miei occhi, rivivo questi pensieri con l’affiorare della pelle d’oca… è solo perchè immaginare di poter ripetere le esperienze e le emozioni provate dal momento in cui la mia vita ha preso parte a questo continuo percorso di crescita e miglioramento… anche solo per un quarto, di quelle vissute… il mio corpo si attiva, la mia mente si appaga ed il mio spirito, rivitalizza.
Non possiamo conoscere il nostro futuro, ma possiamo migliorarlo vivendo a trecentosessanta gradi il presente, sull’esperienza del passato.
Non nasciamo imparati, ma nasciamo per imparare.
Siamo in continuo sviluppo e dare vita ad un percorso di crescita, sulla base di una passione e di un forte sentimento interiore, caratterizza incredibilmente la nostra persona e ci rende vivi.
Questa è la vera carica di cui abbiamo bisogno.
Un abbraccio,
Lo Staff di IN Attraction